Il Collettivo WSP intervista Sandro Iovine. Giornalista e critico fotografico, dirige la rivista IL FOTOGRAFO e insegna Fotogiornalismo e Comunicazione visiva. Collabora con RAI-RADIO 1 e IL MANIFESTO. È stato condirettore di F&C edita dal MIFAV-Università di Tor Vergata. Ha creato e diretto a Roma lo spazio espositivo Centro Fotogiornalismo, organizzando mostre in Italia e all’estero con, tra gli altri, Francesco Zizola, Riccardo Venturi, Paolo Pellegrin, Medici Senza Frontiere.
è autore e curatore del Blog: Fotografia: Parliamone!
In questi ultimi tempi si sta vedendo la nascita di molti collettivi fotografici, anche se in Francia il fenomeno è ventennale, o comunque stanno acquistando maggiore visibilità rispetto a prima, pensi che questo fenomeno possa dare nuova linfa alla fotografia, facendola uscire da alcune dinamiche che tu ben spieghi nel tuo blog?
Come l’influenza massiccia del potere politico/economico, la richiesta di foto neutre o che comunque narrino la sofferenza, ma che non sia occidentale.
Credo che il problema non sia che la sofferenza non sia occidentale, semmai che riguardi un target differente rispetto al quello di chi fruisce delle immagini. Semplicemente il lettore non deve potersi riconoscere in quelle immagini, deve avvertirle lontane. Che poi questo nella maggior parte dei casi significhi rappresentare la sofferenza come un evento che non riguarda occidentali è conseguenziale, ma il problema non è relativo all’appartenenza a una area geo-culturale in quanto tale. I collettivi mi lasciano perplesso. Da una parte perché ho difficoltà (nella piena coscienza che si tratti di un mio limite) a pensare al fotogiornalista in una forma differente dall’individualismo esaltato a potenza. Dall’altra constato con imbarazzo che a dispetto del mio pregiudizio si vedono in giro dei risultati abbastanza interessanti. Per quella che è l’esperienza personale continuo a non capire come possano convivere professionalmente più individui che si occupino di fotogiornalismo.
Nel WPP di quest’anno la foto vincitrice del Spot News: 3rd prize stories è la testa di una bambina morta che spunta dalla terra, fa parte di un lavoro più ampio dove comunque non mancano i cadaveri. Quello che vorrei sapere da te è se questa si può chiamare informazione, riportare i fatti, cronaca o è furbizia del fotografo e del photoeditor?
Innanzitutto a rigor di termini e se le parole hanno un valore (Spot News: 3rd prize stories) mi sembra alquanto improprio affermare che una singola foto sia vincitrice di qualcosa se fa parte di un servizio premiato nel suo insieme. Detto questo suppongo che in realtà l’argomento del contendere sia piuttosto la presenza di cadaveri e le questioni di tipo etico che da questa possono nascere. Ma non vedo perché prendere di mira proprio la fotografia di Mohammed Abed e non quelle di Walter Astrada (Spot News: 1st prize stories) con particolare riferimento a The body of a woman is carried away after being shot in Antananarivo on 7 February oppure a An injured man is helped to flee shooting in Antananarivo. O perché non alle immagini di Farah Abdi Warsameh (General News: 2nd prize stories) magari con particolare riferimento a questa.
Personalmente ho seri dubbi che la produzione di immagini in cui si indulga tanto nella rappresentazione della morte abbiano a che fare realmente con l’informazione. Nutro la convinzione che siano più destinate a stimolare un voyerismo macabro, o forse come dimostrano illustri precedenti (con le relative e discutibilmente argomentate smentite di rigore) di maggior spessore estetico, aspirano all’ingresso in ambiti espositivi che poco o nulla hanno a che vedere con il fotogiornalismo e molto di più con una remuneratività assai più interessante per il fotografo. Del resto la confusione costantemente alimentata intorno alla definizione dei confini del fotogiornalismo e della fotografia da vendere a caro prezzo in galleria è da qualche anno grande e non casuale. Agenzie e fotografia devono supplire al crollo delle entrate economiche in qualche modo. Quello che non riesco a capire è perché lo facciano in modo spesso pateticamente approssimativo e perché coinvolgano   la professionalità fotogiornalistica che nulla a che vedere con l’esposizione in galleria sottoposta alle leggi del mercato e di mercanti che se un domani scoprissero che vendere patate al  mercato risulta più remunerativo, probabilmente non esiterebbero un istante a riconvertire la propria attività. Il fotogiornalismo si sta dibattendo negli spasmi del trapasso nelle forme che lo hanno reso grande forma di comunicazione. Con tutta la buona volontà sostenerne oggi la tradizione è anacronistico. Ci sono straordinari fotografi il cui lavoro e le cui capacità non hanno più senso. Bene fanno a riconvertirsi in artisti, le capacità le hanno, ma per favore, anzi per carità, smettano di farsi chiamare fotogiornalisti. Quando si perde il confine che definisce la destinazione d’uso di queste immagini, si perde la credibilità, si rompe un patto etico stipulato tacitamente tra il lettore e il fotogiornalista: quando guardo le foto, sì anche quelle premiate al World Press Photo, sto guardando immagini prodotte per informare o pensate e realizzate per finire in una galleria ed essere vendute per appagare a caro prezzo le velleità di possesso di collezionisti forse in buona fede, forse in cerca di soddisfazione per le proprie <i>aberrazioni</i>. Il discorso è estremamente lungo e complesso a mio avviso e mi rendo conto che tentare di riassumerlo in poche righe dia adito a numerosi fraintendimenti possibili. Fra questi il fatto che io sia ancorato a posizioni conservatrici rispetto all’idea di fotogiornalismo, idea che non sento appartenermi. Quello che penso è che se è più che lecita una evoluzione delle forme di espressione dovremmo avere ben presente cosa le ha codificate e rese identificabili. Quando si comincia ad andare in una direzione che nega le basi costitutive di un genere, non ci si deve certo fermare. Basta trovare una definizione più appropriata alle nuove esigenze. Del resto la veicolazione delle informazioni contemporanea richiede necessariamente una ridefinizione del ruolo della fotografia in funzione dei media che la supportano. La preghiera è una sola smettiamo di chiamarlo fotogiornalismo soprattutto se questo implica funambolismi retorici autoreferenziali. Per quanto riguarda il photoeditor credo che in Italia questo termine (spesso difficile da reperire all’interno dei colophon identifichi una figura professionale costretta a sostenere un grosso carico di responsabilità senza per altro avere (spesso, troppo spesso) abbastanza ore di palestra sulle spalle per poterlo realmente sostenere. Non penso infine che ne photoeditor ne fotografi o fotogiornalisti mirino a pubblicare immagini scioccanti. Forse un tempo poteva avere un senso. Oggi che qualsiasi pubblicazione è di fatto di proprietà degli inserzionisti nessun photoeditor, grafico, impaginatore, redattore, caporedattore, direttore o editore si azzarderebbe a pubblicare immagini che rischino in qualunque modo di ridurre la propensione all’acquisto indotta da ieratiche pagine pubblicitarie. Ovvero nessuno metterebbe la foto della bambina morta tra le macerie da cui è partita la riflessione nella stessa pubblicazione in cui appare la pubblicità di una crema di bellezza o dell’ultimo modello di auto. Chi lo facesse andrebbe incontro alla sospensione della pianificazione pubblicitaria, in quanto immagini così tristi, riducono l’impatto alienantemente positivo che fiori di pubblicitari hanno costantemente creato intorno al prodotto. E siccome da molto i giornali non vivono certo di venduto edicola, ma di pubblicità… Per cui se per furbizia si intende una prorompente vocazione al suicidio professionale, beh, sì allora si tratta proprio di scelte da gran furbacchioni!
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