Il Collettivo WSP intervista Sandro Iovine. Giornalista e critico fotografico, dirige la rivista IL FOTOGRAFO e insegna Fotogiornalismo e Comunicazione visiva. Collabora con RAI-RADIO 1 e IL MANIFESTO. È stato condirettore di F&C edita dal MIFAV-Università di Tor Vergata. Ha creato e diretto a Roma lo spazio espositivo Centro Fotogiornalismo, organizzando mostre in Italia e all’estero con, tra gli altri, Francesco Zizola, Riccardo Venturi, Paolo Pellegrin, Medici Senza Frontiere.
è autore e curatore del Blog: Fotografia: Parliamone!
Il WPP ha visto trionfare i fotografi italiani, pensi che sia un punto di svolta per la fotografia reportagistica italiana, attaccata in passato sempre ai soliti 4 o 5 nomi, c’è una nuova generazione che avanza o sarà i solito exploit italiano estemporaneo difficilmente ripetibile?
Non ho mai pensato al World Press Photo come ad una sorta di campionato del mondo dei fotogiornalisti, anche se devo ammettere che la conoscenza personale di alcuni partecipanti al concorso mi ha dato più volte elementi per ritenere di essere sostanzialmente in errore. In ogni caso non riesco a percepire l’evento con tutto quanto si porta dietro in chiave nazionalista o para nazionalistica. Credo si tratti di un appuntamento che può essere utilizzato per analizzare le tendenze del fotogiornalismo, che poi queste siano espresse da giornalisti (non utilizzo il termine a caso) di cultura mediterranea piuttosto che anglossassone o estremo orientale francamente mi lascia abbastanza perplesso. Credo sia più opportuno parlare di come viene inteso, percepito, praticato e utilizzato il fotogiornalismo, piuttosto che preoccuparsi della nazionalità di chi lo produce. Del resto sono convinto che il problema dell’Italia nella filiera del fotogiornalismo non sia certo la carenza di talenti o vocazioni tra i fotografi.
In riferimento all’incontro avvenuto a Roma il 24 Aprile presso l’ISA Appunti sul fotogiornalismo: la questione italiana, cosa possiamo dire sulla situazione del fotogiornalismo in italia? Soprattutto dove stiamo andando?
Stiamo andando sempre nella stessa direzione da una ventina di anni a questa parte. Verso l’annichilimento del concetto stesso di giornalismo, fotografico o meno che sia. La progressiva sostituzione dei contenuti di informazione con evidenze di intrattenimento ha formato ormai un’intera generazione di uomini e donne che non si pongono nemmeno il problema di cosa sia l’informazione. È sufficiente verificare come qualsiasi telegiornale sia ormai immancabilmente costruito su una sequenza di servizi che hanno spostato completamente il baricentro verso il pettegolezzo più o meno divistico o il commovente quanto immancabile servizio su qualche animale domestico o selvatico. Ricordo sempre un’affermazione del photoeditor de Il Corriere della Sera, che anni fa nel corso di una riunione del GRIN presso il Circolo della Stampa di Milano, affermò che il dovere professionale di chi svolge questa professione è quello di fornire al pubblico quello che il pubblico stesso richiede. Quello che mi chiedo è come possa fare il pubblico a formarsi quell’opinione indispensabile per esercitare il diritto di scelta in assenza di un’offerta alternativa che ormai è relegata solo alle nicchie di specialisti che certe immagini se le vanno a cercare. Per cui tornando alla questione vedo un orizzonte nero. Credo sia emblematica la richiesta fatta da un giovane professionista (nonché da numerosi studenti dei miei corsi) che nel corso del Convegno di Roma ha affermato che invece di parlare tanto di etica e deontologia, avremo dovuto chiedergli come fare a vendere i servizi che fa. Ora a prescindere che si tratta di una domanda che deve trovare risposta all’interno del lavoro svolto da ogni singolo professionista e non può essere taumaturgicamente calata dall’esterno, è agghiacciante il sottinteso di questa interrogazione: non mi interessa quello che fotografo, ditemi quello che devo fare per fare soldi e io lo farò. Ovvero l’annullamento di ogni sia pur vago senso di eticità nella professione. Chiaro che il discorso (e per fortuna aggiungerei) non può essere fatto assurgere ad universale, ma di sicuro dimostra come, se si mette questo atteggiamento in parallelo con quello promosso nell’esempio precedentemente citato, le prospettive del fotogiornalismo difficilmente appaiono rosee, considerata anche la catatonica atarassia raggiunta dal pubblico che dovrebbe fruirne i servigi.
C’è un limite etico nel fotogiornalismo? È giusto avere un limite?
Un limite a mio avviso dovrebbe esserci. Ma non ritengo che debba essere confinato al ruolo del fotogiornalista, bensì esteso a tutto il processo editoriale, indipendentemente dalla forma che esso assume. Detto questo il problema diventa praticamente insolubile perché a seconda di quale sia la prospettiva che si adotta per valutare la situazione non occorre aver frequentato le teorie dei sofisti per sostenere tanto l’opportunità quanto l’inopportunità di un riferimento di tipo etico in base al quale conformare la valutazione del limite da porre. Detto questo sarebbe facilmente contestabile l’attribuzione di un ruolo di controllo rispetto al superamento del limite. Credo che se fossimo semplicemente più maturi potremmo pensare che ognuno di noi nell’adempimento della propria professionalità dovrebbe essere in grado di autodefinire i propri limiti etici, considerato che l’incrocio delle differenti professionalità provvederebbe alla gestione etica complessiva. Ma si tratta di un’utopia che stride ampiamente con la realtà distopica che che ci ospita.